Tra tavoli e fornelli, la Roma che c’era


Claudio Gargioli e la sua trattoria “Armando al Pantheon”, dove già lavora la terza generazione: un microcosmo nel quale ogni giorno va in scena un inno alla romanità.

Più di quello che dice a parole è quello che esprime con gli occhi: li aggrotta nei ricordi, li strizza in un sorriso così lampante che non serve nemmeno seguire la linea delle labbra per intuirlo, nessun timore nel mostrare lacrime di commozione. Blecchescieff è come gli piace farsi chiamare, un po’ a sberleffo dei termini aulici, romanizzando la sua abitudine di vestire in nero, dentro e fuori dalla cucina.

Claudio Gargioli pensa a sé stesso come “scrittore che ha per hobby la cucina, tanto quanto mio padre Armando era uno stuccatore che faceva il ristoratore”, nonostante dopo tutti gli anni che lo vedono ai fornelli sia diventato il fulcro della sua cucina. E cuoco nonostante abbia all’attivo quattro commedie teatrali e la pubblicazione del secondo libro “La mia cucina romana”, edito da Atmosphere libri, tra ricette, aneddoti e ricordi di clienti celebri e comuni, cui si aggiungono le illustrazioni di Alberto Rinaudo. Cinque esami alla laurea quando tuonò al telefono il padre Armando, di cui il ristorante porta il nome:  “Ah Cla’, viemme a dà ‘na mano che un cameriere n’è venuto”. E da quel giorno Claudio non ne è più uscito.

Claudio Gargioli, foto di Nicola Cersa

Stuccatore negli anni ’50 e padre di famiglia, Armando arrotondava il bilancio di casa facendo il cameriere da Lupelli in via del Mancino, fino a quando non vendettero l’attività al bar Castellino trovandosi così senza quell’introito; non volendo più fare il cameriere prende in affitto quello che anni dopo sarebbe diventato il ristorante “Agata e Romeo” all’Esquilino, accostando a porchetta e panini pochi piatti dal sapore casalingo. Al mancato rinnovo del contratto una breve esperienza in zona Aurelia, fino all’incontro con Marsicola, proprietario delle mura vicino al Pantheon. “Papà firmo un mucchio di cambiali, ma fu una stretta di mano a suggellare l’intesa col proprietario”. Così Armando trovò casa, e casa vuol dire cucina, in Salita De’ Crescenzi, dove tutt’oggi affonda le sue radici e da dove protende i suoi rami, “citato, seppur con altro nome, nel film ‘La grande bellezza’”.

La gricia, piatto tipico della tradizione romana. Foto di Ilaria Putzu

Il centro di Roma negli anni ’60 non era quello di oggi, era un quartiere di operai e artigiani. “Il ristorante di allora era un bujaccaro, con la segatura in terra, il gatto in sala e i clienti che, dopo chiusura, giocavano a carte con papà”, racconta sorridendo Claudio; si viveva protetti tra i vicoli del rione. “Secondo il barbiere mi prendeva in giro quando passavo da ragazzino, mi diceva ‘ahò c’hai i capelli così dritti se che piovono rigatoni l’infirzi tutti’ sotto gli occhi attenti della tintora che mi seguiva con lo sguardo”.

È in quegli anni che Armando si accorge che quando mancava il cuoco Costantino i clienti erano più contenti e mangiavano con più piacere, così decide di togliere le tovaglie e dare al locale l’impronta di bottiglieria: “Panini, porchetta, primi della tradizione romana, saltimbocca, bocconcini e il sabbato trippa”, perché a Roma il giorno prima della domenica ha due B. I figli Claudio e Fabrizio crescono, assistiti dalla nonna dopo la prematura scomparsa della mamma. Per il primo scienze politiche, l’interesse per la musica, la passione per la scrittura e il teatro, un corso di informatica alla IBM, per il secondo ragioneria prima di Matematica e Fisica.

Articolo a cura di Giula Mancini, continua a leggere su Repubblica.it

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