L’antica arte del mosaico – usata da greci e romani già in epoca precristiana per comporre pavimenti e, successivamente, per decorazioni parietali – sta vivendo a Roma un periodo di rinnovato interesse e di positiva rivalutazione. Qui ripercorriamo le vicende storiche di questa antica arte pubblicando un estratto dal libro “Mestieri e botteghe nel cuore di Roma” di Paola Staccioli e Stefano Nespoli
La tecnica, profondamente radicata nella tradizione della città, si esprime oggi tramite la realizzazione di lavori a soggetto sacro, quadri dai moderni disegni e riproduzioni musive d’arte, ma anche e soprattutto come raffinato decoro per valorizzare tavoli, lampade, cornici. Alcuni mosaicisti si occupano del restauro di opere antiche, particolarmente numerose nella città. La tradizione musiva fu infatti molto florida nella Roma antica e medievale, e varie chiese e basiliche, tra le quali Santa Maria Maggiore, San Paolo, Santa Maria in Trastevere, conservano ancora importanti tracce di un’arte preziosa ma in alcuni periodi storici male interpretata e quindi snaturata.
La peculiarità del mosaico è quella di essere un’immagine composta da tessere in marmo o smalto accostate fra loro, e non un “dipinto” più resistente e meno deperibile, con sfumature cromatiche che mascherano la tessitura. Dopo alcuni secoli, il mosaico rientrò fra le arti “maggiori”, riacquistando una propria autonomia espressiva che crebbe con il Liberty e si affermò definitivamente durante il fascismo. Opere musive ispirate alla tradizione classica si trovano nelle principali costruzioni del regime, dall’eur al Foro Italico. Alla rinascita dell’antica arte contribuirono celebri artisti quali Prampolini, Depero, Ferrazzi.
La lavorazione del marmo e delle pietre dure non è però limitata alla composizione di mosaici. Oggi come ieri vi sono infatti artigiani che producono lapidi, targhe e lastre per rivestimenti di vario tipo, oltre che scultori, intarsiatori, incisori, ovvero veri e propri artisti. L’arte del marmo, molto antica, rifiorì a Roma dopo le devastazioni normanne del 1084, quando vennero restaurate o ricostruite le basiliche distrutte, e poi creati nuovi edifici religiosi. Pavimenti, tombe e portali di numerose chiese furono decorati con composizioni musive realizzate con marmi di molteplici tonalità cromatiche. Roma era allora un luogo unico per la sua disponibilità di materiali pregiati. La città conservava infatti quell’enorme profusione di marmi che avevano reso splendidi e maestosi i suoi monumenti in epoca imperiale. Chiese e palazzi nobiliari venivano allora costruiti o abbelliti tramite la spoliazione degli antichi edifici, considerati una sorta di “deposito” naturale. Ripetuti Bandi tentarono di regolamentare il fenomeno. Rimanevano però lettera morta. Talvolta nelle costruzioni erano impiegati anche nuovi materiali di scavo – nei dintorni di Roma esistevano cave di travertino e altre rocce ornamentali – ma la loro estrazione comportava costi più elevati.
La tecnica, profondamente radicata nella tradizione della città, si esprime oggi tramite la realizzazione di lavori a soggetto sacro, quadri dai moderni disegni e riproduzioni musive d’arte, ma anche e soprattutto come raffinato decoro per valorizzare tavoli, lampade, cornici
Di particolare rilievo fu, dal xii al xv secolo, la scuola comunemente chiamata cosmatesca, anche se la denominazione ha dato origine a una serie di dispute. Mentre in un primo tempo veniva identificata con una famiglia il cui capostipite si chiamava Cosma, successivi studi hanno dimostrato che i “cosmati” si dividevano in due rami familiari, i Tebaldo e i Mellini, molto attivi anche fuori della città, affiancati da altre famiglie di marmorari quali i Vassalletto, autori, intorno al 1230, del Chiostro della
Basilica Lateranense, una delle migliori espressioni della scuola.
Il declino della tarsia cosmatesca, e i suoi ultimi pregevoli lavori, risalgono al Quattrocento. Il secolo successivo può essere considerato il periodo della nascita dell’intarsio moderno. A Roma la tecnica fu allora impiegata prevalentemente per realizzare piani di tavoli ma anche lastre tombali, altari e cappelle. Fra i principali artefici si ricorda Giovanni Menardi detto il Franciosino, le cui opere furono richieste anche a Firenze, Napoli, alla corte di Francia. Il Rinascimento non vide a Roma la creazione di opere musive di particolare pregio (il mosaico era subordinato alla pittura), ma fu un periodo florido per l’intarsio marmoreo e per i marmorari romani, pur se i papi si rivolgevano anche ad artefici di altre città. Tra le prime grandi opere “moderne” nelle quali furono usati rivestimenti marmorei vi è la Sala Regia in Vaticano i cui lavori, iniziati nel 1541 sotto la direzione di Antonio da Sangallo il Giovane, si conclusero nel 1573.
Nella prima metà del Cinquecento prevalse un gusto semplice e sobrio. Verso la fine del secolo alle tarsie geometriche si affiancarono invece disegni sempre più complessi, vere e proprie pitture in pietra. Gli artisti del marmo componevano pavimenti e mosaici, rivestivano pareti e innalzavano colonne. Vi erano però anche semplici scalpellini e tagliapietre, mestiere descritto da Thomaso Garzoni, alla fine del Cinquecento, come uno «scarpellar così alla grossa tutte le sorti di marmi il che si chiama abozzare». Un’occupazione faticosa e ben poco artistica. Ma soprattutto rischiosa perché, mette in guardia il nostro autore, quando «una scheggia di sasso ti coglie in un’occhio, ti fa veder le stelle».
Nella città prosperò anche l’arte della decorazione a stucco, inventata dagli Etruschi e molto florida in epoca romana. Abbandonata nel Medioevo, rifiorì nel Rinascimento soprattutto per merito del Ricamatore, al secolo Giovanni da Udine, che operò a Roma alla scuola di Raffaello e fu autore di pregevoli decorazioni composte con un impasto di polvere di travertino e marmo. La tecnica, nella quale si cimentarono artisti quali Giulio Romano, Perin del Vaga, Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini, Pietro da Cortona, Giovanni Battista Piranesi, ebbe sviluppi sempre più monumentali, e venne impiegata anche per abbellire gli esterni, come dimostrano le ricche decorazioni della facciata e del cortile di Palazzo Spada. Le origini dell’Università dei Marmorari sono molto remote: la sua nascita viene comunemente identificata con l’anno del primo statuto manoscritto di cui è rimasta traccia, il 1406, anche se l’attività era in parte organizzata già in precedenza. Il sodalizio comprendeva inizialmente scultori, marmisti, scalpellini, abbozzatori, ornatisti, squadratori, tagliapietre.
Dopo una crisi, nel Cinquecento, provocata da alcuni scultori che non volevano confondersi con “meno nobili” artigiani, nel secolo successivo la corporazione riacquistò prestigio e l’adesione di grandi artisti quali Bernini, Borromini, Algardi. Sciolta nel 1801 e ricostituita nel 1852, l’Università è tuttora esistente.Il suo archivio, ricco di documenti, si trova presso l’Accademia di
San Luca.