Il Cappellaio o Cappellaro era colui che faceva e vendeva berretti e cappelli. Il cappellaio riparava o ripuliva o rinfrescava, anche, i cappelli. Anticamente era, anche, colui che nella caccia col falcone aveva per ufficio di mettere o legare, secondo le necessità, il cappello allo sparviero.
La bottega del cappellaio era un patrimonio prezioso trasmesso in eredità dal padre al figlio unitamente al marchio e all’insegna. Il mastro cappellaio del ‘700, come tutti i depositari di un sapere pratico che si esprime in manufatti costantemente perfezionati, capolavori di ingegno e di manualità, è circondato da un’aura di rispetto.
Conoscitore di una materia quasi impalpabile, cangiante, dalle mille varietà, il pelo, plasma e crea l’opera con l’acqua e il fuoco, elementi mitici e simbolici. La dimestichezza con sostanze chimiche dai nomi arcani e dal terribile potere tossico (il campaccio, il vetriolo, l’arsenico) ne fanno un personaggio misterioso. Segreta è l’operazione chimica sul pelo, senza la quale questo materiale rimane inerte, inadatto ai fini dell’impiego nella lavorazione del cappello.
La ventata libertaria che percorre l’Europa con la rivoluzione francese segna la fine del corporativismo che legava padroni e operai in una stessa associazione. A Milano e a Monza nel 1787 nascono le prime Camere di commercio in sostituzione delle corporazioni. I maestri cappellai si fanno più intraprendenti, cominciano a viaggiare soprattutto in Francia.
Nel 1873 nascono a Torino i primi laboratori capaci di creare feltri pregiati. Monza diviene un importante centro di produzione ed esportazione di cappelli di lana. In Italia come in Francia si costituisce la Universale Società dei cappellai che riunisce i lavoratori del settore in un patto di “amore e fratellanza”.
Tra il Settecento e l’Ottocento nascono i Pii Istituti in cui le pratiche religiose si uniscono all’insegnamento del mestiere del cappellaio: quelli di Torino, di Milano, di Monza si affiancano all’Università Lavoranti Cappellari sorta a Roma nel 1757.
almeno fino alla fine della prima guerra mondiale (1918) il cappello era indispensabile all’uomo – a qualunque ceto sociale egli appartenesse – allo stesso modo delle scarpe
La seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata dalla progressiva meccanizzazione dei cappellifici e parallelamente dalla strenua difesa della propria professionalità da parte dei maestri cappellai minacciati dall’automazione. Nascono le Società di Mutuo Soccorso per i lavoratori del settore mentre gli imprenditori creano l’Unione Fabbricanti di cappelli.
Il Mestiere del Cappellaio a Roma
Un indice dell’anormale andamento del commercio delle cappellerie si ha nel continuo decrescere del numero dei negozi, dal 1929 in poi, sia come numero assoluto, sia in rapporto al numero degli abitanti. Nel 1929 il commercio dei cappelli era esercitato (a Roma) da 145 ditte che gestivano 160 negozi.
Nel 1932 – nonostante che fossero sorte nel frattempo 26 nuove ditte con altrettanti negozi – agivano nella piazza 118 ditte con 130 negozi. Nel 1934 – (per quanto questa annata sia al di fuori dei limiti del presente studio, riteniamo utile l’accenno quale termine di rapporto) nonostante l’apertura, tra il 1933 ed il 1934, di 22 nuove cappellerie – il numero complessivo dei negozi è diminuito a 115, ripartiti tra 104 ditte.
Per una esatta valutazione di questi dati è però doveroso avvertire che alla diminuzione del numero dei negozi specializzati, ha corrisposto nelle stesse annate un notevole incremento della vendita della cappelleria da uomo (specie di quella di tipo scadente) da parte dei grandi empori di merci varie e dei magazzini di abbigliamento per uomo».
In effetti, almeno fino alla fine della prima guerra mondiale (1918) il cappello era indispensabile all’uomo – a qualunque ceto sociale egli appartenesse – allo stesso modo delle scarpe. Finanche agli scioperi ed ai moti di piazza – quando era facile che il cappello cadesse o andasse perduto – uomini e ragazzi partecipavano con il cappello in testa. Non togliersi il cappello per salutare era giudicato un atto di maleducazione e, in alcuni casi, di provocazione.
L’andamento del commercio delle cappellerie – si legge in una indagine condotta dalla Camera di Commercio di Roma, nell’anno 1935 – è stato particolarmente influenzato dalla moda del “capo scoperto” che, già introdottasi in periodi di floridezza o almeno di apparente floridezza economica, si è andata sempre più estendendo con l’aggravarsi delle contingenze economiche.
Si aggiunga ancora che nelle nostre condizioni di vita e di clima il cappello rappresenta nell’abbigliamento un “capo” non sempre indispensabile, e di cui in ogni caso la necessità di rinnovamento è di gran lunga inferiore a quella della biancheria, dell’abito, delle calzature.
Va tenuto ancora conto del tramontare dell’uso del cappello di paglia, che invano si è tentato di ravvivare con larghe iniziative propagandistiche – e del diffondersi dell’uso del “basco” – articolo che solo da pochi anni è stato introdotto, per necessità di cose, nel commercio delle cappellerie per uomo – mentre prima era venduto esclusivamente dalle modisterie e dai negozi di articoli di abbigliamento misto.
I versi di Gioacchino Belli
Il celebre poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli, nel 1837, scrisse un sonetto dal titolo “El Cappellaro” dedicato proprio a questo antico mestiere:
«È in ordine, sí o nò, questo cappello?»
«Quale?» «Il cappello bianco». «Ah, ssissiggnora.
Checco, venite cqua: ccacciate fora
quel tutto-lepre. Nò cquesto… nò cquello…».
«Orsú, non dite piú bugie, fratello…».
«Via, dunque, el zu’ cappello se lavora».
«Vediamolo». «L’ha in mano l’orlatora».
«Mandateci». «Eh, el regazzo sta al fornello…».
«Ho capito». «Ma llei sii perzuasa,
10sor cavajjere, ch’el cappello è ppronto,
e ddomatina je lo manno a ccasa».
«Lo stesso mi diceste l’altra festa».
«Lei nun ce penzi ppiú: llei facci conto
com’el cappello ggià ll’avessi in testa».
Si ringrazia Gianluca Dodero, autore e fondatore della pagina Romanima, per lo spunto e la collaborazione