(Anche Maniscarco, Ferraro, Ferracavalli). Era colui che metteva i ferri agli zoccoli dei quadrupedi, in specie cavalli e asini, usati dall’uomo. I maniscalchi esercitavano, oltre al loro normale lavoro, anche la veterinaria donde il nome di “medici dei cavalli”. Facevano parte di uno dei tredici corpi d’arte l’Università dei Ferrari.
Il maniscalco veniva rappresentato (1600) con le tenaglie, il martello, i chiodi da cavallo, le brocchette, il coltello, la raspa, il capeccione, gli uncini, le code da mosca, la tessera, i ferri di diversi tipi, da cavallo, da mulo, da chiappe di bue, ramponato, sramponato, da ghiaccino. Le sue azioni erano: il legar l’animale, porlo nel travaglio, mettergli le moraglie, cacciargli le mosche, incastrarlo, tenergli il piede, ferrarlo, ribatterlo, rimetterlo, inchiodarlo, salassarlo, rompergli la palatina e medicarlo d’ogni male.
A Roma, in un editto del 1703, si diceva che nei giorni festivi di precetto “li Ferracavalli dopo le prime Messe non s’impedischino di ferrar cavalli, ed altre bestie purché non lavorino nella fucina”.
Lo scrittore Enrico Pea (nato verso il 1880) doveva essere maniscalco, perché i Pea erano fabbri, fonditori e idraulici, a Seravezza. Cosi egli scrive per esperienza giovanile fatta in prima persona notando (1952) che “se alle qualità artigiane soltanto si limitasse, il maniscalco andrebbe considerato come un qualunque calzolaio, che invece di fare le scarpe per gli uomini, le fabbrica di ferro ai quadrupedi. Se non che, il calzolaio è ben altra cosa: non è chirurgo, non è ortopedico, come lo è invece il maniscalco”.
Ricorda ancora Enrico Pea: “Già mi aveva attirato il barbaro zinale di cuoio, dalle ginocchia al petto, a difesa delle faville, che avrebbero altrimenti sforacchiato i calzoni di fustagno e la camicia, che, il Maestro Gelli portava turchi nei giorni feriali. E, l’armonia, che dall’incudine si dipartiva riempiendo la nera bottega, mi incantava. Non era, quella musica, simile al martellare robusto, che faceva sul ferro, di ben altra mole, il mio parente fabbro. E non l’avrei creduto, chè, pur si trattava ugualmente di ferro arroventato, da dover essere disteso: stirato a colpi di martello, e ridotto alla forma secondo l’utilizzazione. Ma, il ferro, che il maniscalco adesso domava con la sicurezza che a lui derivava dal modellare sempre ferri per zoccoli da cavallo, pareva diventare un trastullo ardente, stretto tra i labbri delle tenaglie, nella sua poderosa mano sinistra”. Nel 1978, a Roma, ce n’erano rimasti due di maniscalchi: uno lo soprannominavano il “burino” e si chiamava Guerino.
Documentazione ripresa da Antichi mestieri di Roma: un viaggio affascinante nel cuore della città tra artigiani, botteghe e venditori ambulanti alla riscoperta di curiosità, segreti e ambienti caratteristici di una vita urbana in gran parte scomparsa, Mario La Stella, Roma, Newton Compton, 1982
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