Alessandro Fagioli è una vera e propria istituzione del movimento artistico romano. Innovatore, restauratore, studioso, vanta nella sua lunga carriera collaborazioni con grandi maestri del Novecento italiano e memorabili imprese artistiche come il Marco Aurelio del Campidoglio o il restauro del Duomo di Orvieto. Nelle sue parole è possibile scovare tutta la passione che nutre nei confronti delle materie che plasma e la sua incrollabile volontà di creare. Il sorprendente entusiasmo che mostra al pensiero di intraprendere un nuovo progetto è il tratto distintivo del maestro, del predestinato, del fuoriclasse, insomma, una dimostrazione di eccellenza tutta made in Rome.
Come nasce artisticamente Alessandro Fagioli?
Io nasco in una bottega d’arte, una vera bottega artistica, e ho collaborato con tanti artisti di fama internazionale: Greco, Attardi, Fazzini. Feci un concorso alla Zecca dello Stato, l’ho vinto, e subito ho iniziato il mio lavoro nel piccolo laboratorio della Zecca. A più di 30 anni, poi, ho avuto voglia di migliorare ancora, e siccome nella Zecca dello Stato c’era una scuola dell’arte della medaglia, ho chiesto alla direzione di poterla frequentare. Io avevo una famiglia, i problemi non mancavano, ma ho voluto ugualmente frequentare la scuola dell’arte della medaglia e dopo quattro anni mi sono diplomato. In Zecca si sono accorti di queste capacità e mi hanno affidato l’incarico della fonderia artistica dove facevano le lavorazioni di tutti i metalli preziosi. È passato ancora del tempo e, qualificandomi sempre un po’ di più, ho raggiunto anche l’insegnamento della scuola d’arte della medaglia.
Quanto ha segnato la sua carriera il lavoro presso la fonderia della Zecca dello Stato? E se non fosse riuscito ad entrare, avrebbe comunque intrapreso questa strada?
Sono nato per muovere le mani, per lavorare la pasta, i metalli, le materie. Non ti nascondo che con l’aumentare delle competenze e delle capacità ho aperto un laboratorio personale, esterno a quello della Zecca, e la sera facevo l’artigiano in proprio. Con il tempo ho dovuto riflettere se lasciare la Zecca perché soffocava la mia creatività e insistere sull’attività in proprio che nel frattempo si era ingrandita. Poi a causa di malignità venni richiamato, in quanto la mia attività fu dichiarata concorrenziale a quella della Zecca stessa. La situazione mi ha fatto scegliere di rimanere nella Zecca di Stato, che col passare del tempo ha ampiamente riconosciuto il mio valore. Mi hanno dato diversi incarichi, sono stato molto apprezzato e, ultimo ma non ultimo, ho avuto la possibilità di fare dei lavori molto importanti.
Lei ha fatto tutto il percorso all’interno della Scuola d’arte della Zecca di Stato, da allievo a insegnante. Cosa ha significato per lei poter trasmettere la sua passione ad altre persone? C’erano dei dettagli sui quali poneva una particolare attenzione?
Il mio piacere consisteva nel dare continuità a quello che sapevo, a quello che facevo. Ma la vera passione era quella di prendere a mia volta dagli allievi delle nuove competenze. Perché l’allievo è sempre un po’ titubante a chiedere, a sbilanciarsi di fronte al docente, rimane sempre un po’ timido perché ha paura di fare una domanda stupida. La prima cosa che io dicevo era “Se voi mi fate una domanda intelligente io vi do una risposta stupida, cerco di incartare la vostra domanda intelligente, perché io non voglio andare in difficoltà e quindi do una risposta stupida. Se invece voi mi fate una domanda stupida, io vi darò una risposta intelligente”. Così li mettevo a loro agio. Questo era il rapporto di lavoro e di interdipendenza con i ragazzi. E oggi ancora mi telefonano, dopo trent’anni. Ancora mi mandano gli auguri di compleanno. L’altro giorno sono stato a San Giovanni [in Laterano, ndr], e mi sono trovato davanti un allievo: “Professore, ho bisogno di sapere una cosa!”. Così, sul marciapiede. Questo è bellissimo, questa è la gratificazione più grande per chi insegna.
Intervista a cura di Marco De Leo
Foto di Emanuela Pucci