Liberamente ispirato a personaggi, luoghi e circostanze reali, Il Villaggio di Gennaro, testo teatrale fra dramma e commedia, fra denuncia e riflessione, racconta in un Atto unico, tre Scene ed Epilogo, la storia di un artigiano – mosaicista e smussatore – che ama il suo lavoro e non vuole vederlo morire assieme alla bellezza delle opere artigianali sostituite dalla produzione seriale effettuata con materiali scadenti. E non rinuncia a credere alla possibilità di portare avanti, in un mondo meccanizzato e globalizzato, un discorso di qualità legato alla tradizione gloriosa del nostro made in Italy. Poiché, questo il potente messaggio dell’opera, l’ingegnosità dell’Artigiano non sarà mai sostituita da alcuna macchina.
Cresciuto in un quartiere romano ricco di botteghe artigiane, Gennaro da sempre coltiva l’idea di costituire un consorzio di artigiani, sia per una concreta prospettiva occupazionale che per la salvaguardia di tutti quei mestieri tradizionali che un tempo si passavano di padre in figlio o mediante l’apprendistato presso qualificati mastri artigiani.
Nel 1991 mette la sua idea su carta, redigendo la bozza di un progetto che prevede tra l’altro un ragguardevole iniziale capitale sociale, che egli pensa di realizzare con la vendita dei suoi beni immobili, casa e bottega, e comincia il giro delle proposte ai vari enti interessati e anche a privati cittadini, che non vengono respinte e nemmeno accettate, semplicemente ignorate. Tutto quello che chiede Gennaro è uno spazio adeguato, pubblico o privato che sia, dove poter avviare un progetto che offre grandi possibilità a fronte di un luogo d’accoglienza per un investimento di utilità sociale e culturale.
Gennaro non si arrende, la sua idea semplice e logica, suffragata peraltro dai vari pulpiti, attualissima oggi dopo un quarto di secolo come al momento in cui fu stilato il progetto, continua a credere e a sperare, o forse solo a delirare. Ma sarà proprio la forza del sogno che spalancherà infine prospettive e reali possibilità che stupiranno lo stesso protagonista.
Le indicazioni di regia presenti nel testo ricreano ambienti e condizioni di vita di una durezza sconcertante, addolcita dalla schietta umanità che trasuda da tutti i personaggi – dal meccanico all’assistente domiciliare, dal vucumprà al cantastorie, dai “compagni” in fase di revisione storica al prete trincerato dietro le sue dottrinali certezze – ognuno dei quali esterna a suo modo disagio e insieme desiderio di bene, sia pure in maniera confusa, e all’atto pratico risponde attivamente alle negligenze del sistema. Vibranti e pungenti i dialoghi, sempre sul filo di una vivace polemica che metterà a confronto opinioni diverse ma non avverse.
Di questo testo e di questa storia colpisce in particolare il fatto che nello stesso giorno in cui è uscito il libro, nello scorso mese di aprile, il Sacro Cuore di Ciampino – ex Collegio delle Ancelle del Sacro Cuore, ex IGDO – è stato svenduto all’asta. Il prestigioso edificio, abbandonato da decenni, era stato immaginato dall’autrice come possibile spazio per la Cooperativa di Gennaro, che nel libro viene detta appunto Cooperativa Sacro Cuore.

Maria Lanciotti
E questa è la fantasia di Gennaro, descritta nell’epilogo:
“Che visione! Il Sacro Cuore ristrutturato, le botteghe artigiane in piena attività, le famiglie sistemate, viavai di gente, tutto un fermento! […] Mi sembrava di risentire la sinfonia dei mastri all’Alberone, fra scintille di forge e stridere di seghe […]il richiamo dell’arrotino e dell’ombrellaio, il chiasso dei monelli, le risate delle donne affacciate alle finestre […] Boh, sarà stato un sogno ma pareva vero”.
In Libreria –Il Villaggio di Gennaro di Maria Lanciotti – Edizioni Controluce 2016 –
Recensione di Aldo Onorati
IL VILLAGGIO DI GENNARO: Un’idea antica e moderna
In ogni opera che si rispetti, bisogna trovare o il verso-chiave (se si tratta della cosiddetta poesia), oppure il sintagma-chiave se il libro è scritto in prosa.
Per quanto riguarda il lavoro teatrale di Maria Lanciotti titolato “Il Villaggio di Gennaro”, che le Edizioni Controluce hanno stampato nella “Collana drammaturgia” (apro un inciso: Controluce, da un paio di anni, ha fatto un balzo di qualità a livello nazionale), i punti di riferimento “ante quem” e “post quem” sono almeno tre, e li indicherò al momento opportuno. Per adesso mi urge dire che si tratta di una “versione teatrale” d’un’idea antica e moderna: l’utopia.
Certo, se i grandi uomini della Storia non avessero sognato ad occhi aperti, saremmo rimasti all’età della pietra (e forse sarebbe stato meglio per tanti aspetti), o alla “media-luna” delle palafitte. Gennaro è un visionario, modesto, nel suo mondo ristretto alla sua bottega ma aperto ai grandi ideali. E’ uno di quegli uomini di cui si va perdendo lo stampo. Vorrebbe fare, ma è ostacolato dal timore intrinseco del mondo che ci rende banali; avrebbe potuto realizzare qualcosa, ma le circostanze non gliel’hanno permesso. Però la sua riflessione (e questo è il primo sintagma-chiave) è la seguente, “ante quem”: “Se non ci fosse il muratore, a che servirebbe l’ingegnere?”.
Maria Lanciotti vede lungo, con la sua espressione misurata, tenuta al freno logico di un estremo rigore mentale, in cui bisogna scandagliare fra le righe, i rimandi, le cose dette e non dette, forse gli stessi oggetti accennati e i tentacoli dei tempi non recenti (senza mai scadere nella “Laudatio temporis acti”). I personaggi che fanno corona al protagonista “specializzato in smussi, tagli e buchi a maioliche, marmi e vetri”, e cioè una conoscente (Liberata), soprattutto Aladdin il vucumprà, e Giacomo (un compagno, si parla di politica) e una sorta di contraddittore necessario alla trama (Don Tonino con la sua assistente domestica, una russa piacente, che fa da contraltare sia alle idee di Gennaro che a quelle del suo parroco: e sarà, forse, la chiave di volta di un progetto “folle”: ma senza il “folle volo” Ulisse sarebbe rimasto l’eroe di Troia, il navigatore un poco strano e funambolico del Mediterraneo, senza impersonare l’idea dell’ulissismo, di colui, cioè, che contraddicendo i limiti imposti da Dio e dalla Natura alle cose, varca le Colonne d’Ercole per dare un senso più alto alla vita, per seguire la virtù e la scienza, anche se vi rimetterà la pelle insieme con i compagni “vecchi e tardi”; anche un piccolo e anonimo Gennaro può incarnare la sacra follia d’un eroismo che può andare dal gigante Odisseo all’uomo qualunque).
L’Italia è una terra di artigiani: senza di essi non sarebbero nati i Comuni e non sarebbe finito il Medioevo (quello negativo, perché
l’Età di Mezzo è fra i secoli più alti della storia dello spirito!); ma noi questa verità l’abbiamo dimenticata per copiare – stoltamente, non avendone i mezzi né le risorse – la civiltà tecnologica, della macchina e del consumo di massa, anzi: della produzione di massa.
Gennaro è un artigiano, un sognatore, ma senza i sognatori, che sbattono la testa al muro e danno però un senso alla vita, la civiltà sarebbe morta sui fronti di battaglia! Tutto è omologato. Prima ogni cosa (compreso il vino) aveva una firma “privata”. La lotta del lavoro era lotta non solo per l’esistenza, ma superamento continuo di ostacoli come in una gara sportiva il cui guiderdone era il “nome” e l’orgoglio del poter dire: “Questo oggetto l’ho fatto io, con le mie mani”.
Aladdin è un personaggio necessario al racconto teatrale. Egli pone un problema che potrebbe essere ormai ritenuto ovvio (quello razziale), ma che Maria Lanciotti colloca in un ambito più profondo, coraggioso e polemico. Infatti, quando Gennaro dice: “Nel consorzio c’è posto per tutti: senza distinzione di sesso, di lingua, di religione”, Aladdin osserva rispettosamente: “Tu non detto ‘di razza’”. Al che il protagonista – il quale stava appunto ideando questo consorzio per riportare in efficienza la nostra antichissima sapienza artigiana – risponde: “Non esiste distinzione di razza!”, ma l’intelligente Aladdin, che noi sappiamo in seguito essere un medico, insiste: “Però scritto su Costituzione, articolo tre!”. Ed ecco il punto centrale della discussione. Gennaro ha il coraggio di dire che è un errore che va corretto, perché la razza umana è una. D’altronde, quando ad Einstein fecero dichiarare di quale razza fosse, scrisse: “Umana”. Ma noi fermamente crediamo alla bontà dei Padri Costituenti, i quali pensavano alle storture razziali di Hitler, del sottomesso collega Mussolini (anche se fra i due, e Stalin ed altri, il Duce è stato il meno sanguinario, ma ciò non lo assolve da quella contraddizione coi suoi primi intenti di non considerare né le razze né gli ebrei nemici d’Italia).
Chiedo scusa per questa divagazione, ma ce ne sarebbero altre a cui sono tentato di dare il via, poiché nel tessuto speculativo di Lanciotti si parla di ideologie, e della loro fallacia (Gennaro, infatti, è al di sopra dell’ideologia, anche se è del pugno chiuso: il suo è idealismo, non ideologia).
Uno dei punti che si evincono dal contesto è – secondo me – il fatto che in Italia ognuno è costretto a operare in un campo lavorativo contrario a quello sognato (o almeno la maggioranza). Questo la dice lunga sulla fuga dei cervelli! Ma è un nostro metodo quello di mandare in Inghilterra il genio di Marconi, in Spagna Cristoforo Colombo, in esilio Dante e Foscolo, in America Antonio Meucci, e di far fare strada e carriera ai mediocri. Forse sarebbe meglio cancellare dal nostro vocabolario la parola “meritocrazia”.
Un terzo punto si pone come un nucleo di riflessione e di specularità di due visioni contrapposte, antitetiche, ove lo specchio riflette l’immagine in modo disuguale, ma noi ci chiediamo quale sarà la vera delle due. Mi riferisco alla frase di Giacomo, un “compagno”, il quale dice: “Ed eccoci giunti al paese dell’Utopia…”, al che Michela, una “compagna”, risponde: “Dove non si fa mai attracco”.
E’ in questo continuo dubbio, in questo sperare e chiudere la speranza, in tale ambiguità in cui tutti potrebbero avere ragione, che si basa la forza dell’opera di Maria Lanciotti (anche se alla fine uno spiraglio di avvenire può anche farsi strada, ma noi siamo con Michela, e aggiungiamo che per fortuna non si fa mai attracco al paese dell’Utopia, dal momento che di tante che se ne sono attuate, molte si sono convertite nell’opposto del dettato dei loro ideatori…).
Scrive nella postfazione Edoardo Baietti: “Con la penna di Maria non si scherza: guida passo passo lungo scene di tranquilla (in apparenza) vita quotidiana per poi sconcertare con un’ironia sottile, mutevole e in taluni casi del tutto inaspettata”.
Altro che spaccato di vita quotidiana di un paese ancora ai margini del consumismo e del caos! In queste poche pagine – pur ambientate in una piccola bottega artigiana – c’è una sorta di mondo “antico-moderno” o addirittura atemporale per quanto riguarda la posizione cronologico-speculativa, e, soprattutto, un irriducibile coagulo di problematiche alle quali né il lettore né il critico (o lo spettatore, dato che è un lavoro teatrale) può sfuggire. La risposta? L’opera è aperta: ognuno darà la sua, ma rimane il fatto che Lanciotti ha siglato un testo che induce a riflettere e sradica dal giudizio perentorio, così come la vita in tutte le sue sfaccettature antifrastiche e meravigliosamente plurivalenti.
Aldo Onorati
Postfazione di Edoardo Baietti
Una guida al Villaggio di Gennaro: “Se non ci fosse il muratore, a che servirebbe l’ingegnere ?”
Ci sono testi che incutono paura. Appare quantomeno singolare iniziare in questa maniera la postfazione di un’opera dal titolo così familiare, “Gennaro voleva fare il muratore”, eppure a volte anche una pacata pièce teatrale, pronta per una immediata e si spera imminente rappresentazione, oppure addirittura per una serena lettura in salotto, può in qualche modo rivelarsi un’esperienza destabilizzante.
Con la penna di Maria non si scherza: guida passo passo lungo scene di tranquilla (in apparenza) vita quotidiana per poi sconcertare con un’ironia sottile, mutevole e in taluni casi del tutto inaspettata.
Ma procediamo con metodo.
Pessime tradizioni d’oltreoceano rendono ormai una scelta obbligata quella di rivelare in anteprima le trame dei romanzi e delle opere audiovisive, ma il cosiddetto “spoiler” rischia di distrarre dalla vera “sostanza”, quindi mi accingerò solamente a fornire una chiave di lettura del tutto personale, indirizzandola soprattutto a quanti, magari non essendo a conoscenza dell’ampia letteratura firmata Maria Lanciotti, potrebbero prendere il mio invito dell’incipit come una scelta di prammatica.
Di un villaggio si tratta, dunque per tratteggiarne i caratteri e invogliare “turisti”, prenderò spunto dalle guide turistiche delle meraviglie del Bel Paese, dove ad una panoramica generica delle località da visitare, si accostano descrizioni delle principali attrazioni (nel nostro caso i personaggi del racconto, alcuni sfacciatamente genuini, altri realistici e altri ancora “macchiettistici”). Partiremo dal contesto generale per tornare infine al concetto di “paura” con una rinnovata consapevolezza.
Il Villaggio di Gennaro non nasce all’improvviso in una di queste serate invernali. Si tratta di un’idea lasciata riposare per anni e anni nella mente di un talentuoso artigiano, afflitto e logorato da una società che non lascia scampo alla libera iniziativa e il cui unico interesse sembrerebbe quello di privare l’uomo di ogni forma di originalità.
“Finalità del progetto”, espone con fierezza Gennaro, “la costituzione di un polo per valorizzare e consolidare l’attività artigianale italiana in tutti i suoi aspetti: dal servizio al pubblico, tramite esposizione e vendita di prodotti artigianali, al deposito, alla consulenza, all’apprendistato, alla copertura previdenziale”.
Un consorzio artigianale in grande stile, dunque, già provvisto di capitale sociale e che necessita soltanto di una vasta area per la sua realizzazione. Certo, un’idea che può sembrare semplice ma che deve essere frutto di una mente complessa visto che come si legge nel prosieguo della storia potrebbe diventare un fiore all’occhiello nel campo della produzione nostrana, dotato di tutti gli strumenti e i comfort necessari.
Lo scorrere degli eventi è abbastanza lineare: Gennaro vuole creare la sua comunità, incontra svariate figure sul suo cammino, ancora una volta si rende conto della vacuità dell’umana condizione. Un po’ attempato, con un bel caratteraccio, lunatico, testardo fino all’osso ma allo stesso tempo sensibile sognatore e ancora deciso a vivere il mondo con gli occhi di un bambino. Questo è il nostro Gennaro.
Tra gli altri personaggi della rassegna, citiamo Aladdin, un medico immigrato ridotto a venditore ambulante, e Daniele, concertista classico e cantastorie per scelta. I tre, affiancati da un coro di simpatici e volenterosi sostenitori, si adopereranno con tutti i mezzi pur di tramutare in realtà il sogno di Gennaro, che potrebbe veramente rivelarsi una svolta in questi anni di crisi. Ed ecco che alla terza ed ultima scena il ritmo diviene all’improvviso serrato, i dialoghi si fanno “taglienti” e l’ipocrisia sociale si “incarna” nel personaggio istituzionale di turno.
Lo spazio concesso in questa sede non consente di approfondire alcuni punti che non ritengo peraltro essenziali ai fini di un primo approccio alla lettura, come ad esempio la sequela di sentite idee politiche che ogni tanto fanno “capolino” tra i pensieri dei personaggi (idee a cui ognuno di loro si aggrappa come fossero un baluardo per un avvenire più giusto), e anche l’excursus autobiografico di Gennaro, tematiche che in ogni caso appaiono lampanti man mano che ci si immerge nel nostro villaggio.
Ulteriore “chicca” della narrazione, l’assenza quasi totale di tecnologia. È un fatto singolare che non deve sfuggirci. Ritengo che non si tratti di una scelta casuale, quella di ritrarre scene di vita “contemporanee” privandole però dell’asfissiante presenza di tablet, applicazioni e social network. Forse è un ulteriore accenno allo stato particolare del gruppetto dei protagonisti, fra gli ultimi sognatori di un’Italia (o forse dovremmo dire un’Europa) oppressa dal potere del materialismo.
Bene, ritengo siano questi gli elementi necessari per non fare la figura degli sprovveduti quando, trascinati dalla prosa ‘leggera’ di Maria, si arriva ad un certo punto in cui l’amarezza prende il sopravvento. Ma amarezza per cosa? In particolare per il contesto sociale a cui ho già accennato, un contesto di promesse inesaudite e di un continuo sfoggio di falsità, che accomuna i vari strati della popolazione, in particolar modo quei “responsabili” che tanto potrebbero fare ma che si guardano bene dall’attuare qualsiasi modifica alla ‘comoda’ situazione preesistente.
Il mio ruolo potrebbe esaurirsi così, nell’aver delineato la sensazione provata quando le continue tensioni all’integrazione e a un’umanità votata alla pace sembrerebbero rivelarsi sul finale fioche fiammelle che ardono in pochi cuori, schiacciati dalla burocrazia e dal servilismo.
Ma sarà a questo punto che scatterà l’imprevisto, lo scarto inatteso che infine rimetterà in gioco l’intera partita. E l’amarezza acquisterà il sapore della sfida con l’ennesimo rilancio.
Di questo tratta il testo di Maria.
Un testo che incute e insieme allontana la paura.
Perché, alla fine, in ognuno di noi c’è un po’ di Gennaro … peccato che non ce ne sia abbastanza.
Edoardo Baietti
Recensione di Serena Grizi
Il Villaggio di Gennaro: appunti per un mondo sapientemente nostro
Leggo da anni i libri di Maria Lanciotti, i suoi lavori, con l’intento di non sbrigarmi a finirli. Quando un autore è diventato corposo, ha al suo attivo tanti titoli, e hai trovato che ci sono idee che ti interessano nella sua scrittura e altre che ti fanno rabbia, è meglio che tu lo continui a leggere, e se ti piace anche come scrive, lo metti fra gli autori guida che non si esauriscono alla fine della lettura, ti tormentano, ti interrogano, interrogano una parte di te e quindi hai bisogno di tempo per metabolizzarli. Per capirci, oltre i libri di Maria, fra le letture che mi porto dietro nel tempo, quelle che stanno sul comodino, c’è anche il poeta inglese Philip Larkin, l’eterno Eugenio Montale, il romanziere americano Philip Roth, Primo Levi, altri…
Ho cominciato a scrivere di scrittori, dei loro libri, quando mi è sembrato che il giornalismo che mi piace fare, seppure a livello pubblicistico, richiedesse un tempo adeguato che non avevo per stare davvero dietro ai fatti, cioè in giro, per la strada ad informarsi: a quel punto potevo dedicare meno tempo alla ricerca di notizie, ma più tempo alla scrittura e sempre tanto allo studio, alla riflessione, così mi sono affezionata, diciamo così, ad alcuni scrittori che vivono e lavorano ai Castelli: con Maria abbiamo condiviso in parte anche l’esperienza del giornale Controluce e la mia esperienza di libraia. Lei è venuta a trovarmi, abbiamo organizzato presentazioni e continuato così il nostro dialogo sulla scrittura, i libri, la vita, seppure con pause più o meno lunghe per gli impegni personali di ognuna.
Tornando alla stesura drammaturgica de Il Villaggio di Gennaro di cui parliamo stasera. Provo a fermare alcune idee fra le tante che scaturiscono da questa lettura dalla trama apparentemente semplice ma che a ben guardare coinvolge il nostro modo di vivere personale e anche sociale se è vero che oggi noi siamo il lavoro che facciamo e che se siamo costretti a dirci ‘disoccupati’, anche se occupati a fare mille cose al giorno, siamo considerati subito dei falliti. (Qui occorrerebbe cominciare a cambiare linguaggio, poiché prima di essere dis-occupati noi siamo persone…)
Appena aperto il libro, un pezzo teatrale, atto unico in tre scene, mi sono trovata subito a mio agio. L’entrata in scena di Gennaro cercando gli occhiali, la bottega piccola ma fredda, il parlottare fra sé e sé tipico delle persone sole mi ha subito un po’ ricordato Luca Cupiello, personaggio di Eduardo De Filippo, mentre s’avvia a costruire l’amato presepe: Luca vive una sua solitudine pur stando in famiglia un po’ per la sordità, un po’ perché i suoi, per non metterlo a parte di certe cose che ritengono sia meglio che non sappia, fanno ‘il telegrafo senza fili’. È dignitosamente povero: nel suo caso la stanza dove dorme è grande ma tristemente fredda come molte altre abitazioni allora, (con Eduardo siamo negli anni trenta, ma per i poveri poco è cambiato a quanto pare) e Luca Cupiello sopravvive nell’esistere di quelle botteghe, con proprietari maestri-mastri, lavoranti, apprendisti, che impariamo da Eduardo, e Maria Lanciotti ce lo ricorda, danno vita ad una realtà nella realtà con la loro sola esistenza. Infatti Lucariello è uomo di fiducia di una tipografia: in pratica apre e chiude l’attività la mattina e la sera e ne conserva la chiave. Gennaro, invece, è un maestro mosaicista e se non esistesse lui tutti i personaggi di Maria, quasi poveri e infreddoliti quanto lui, non saprebbero dove vedersi.
Da questo punto di vista il racconto drammaturgico è una Epifania, un farsi della luce in una giornata come un’altra. Una bella luce di speranza chiude anche la scena nel finale. Gennaro ha un progetto utopico da realizzarsi con soldi che, immagina, si possano ricavare dalla vendita della sua eredità di famiglia mai intaccata: ovvero realizzare un quartiere/cittadella degli artigiani che possa fungere da casa e bottega. Nella bottega arriva un coacervo di persone che non so se nella mente dell’autrice significhino resistenza, resilienza, ovvero conservazione o adattamento: il venditore immigrato, il cantastorie, i compagni impegnati (forse catto-comunisti?), l’assistente domiciliare. Anche se alcune figure hanno poco più di trent’anni, come il vucumprà, sembrano già legate ad un’altra epoca.
L’idea di una città degli artigiani è bella: talmente bella che qua ai Castelli Romani è stata sempre ostacolata in maniera feroce: infatti accade che quando non sovvenziona tutto lo stato, quando non c’è da prendere quindi, quando non c’è il lavoro sicuro che ti da la pensione, (come se ancora ce ne fosse uno, visto che non è più sicuro nemmeno l’istituto dell’inps che coi soldi delle pensioni azzarda investimenti pericolosi); e quando se io che ho il potere ti do un terreno, un capannone uno stabile e poi non posso importi il personale che dico io (e poi dicono che la mafia sta al sud…), quando è così non se ne fa niente di niente. Questi alcuni degli ostacoli insormontabili, più politici, di mentalità, si capisce, che non legati al fare davvero.
In realtà l’utopia di Gennaro ci interroga perché il suo discorso si inserisce benissimo nelle utopie concrete, nell’altra economia, (argomenti mica tanto nuovi oramai) solo che a parte che una volta entrati in questa mentalità bisogna crederci fino in fondo e non a giorni alterni, ma la cosa che si ribadisce troppo poco è che queste attività, queste realtà, concepite in questo modo, hanno bisogno di due cose: un indirizzo etico preciso, valido anche questo a oltranza, e rinunciare alla vita consumistica, all’acquisto indiscriminato di tutto quel che il sistema ci propone. Un mio ex compagno di ginnasio si occupa proprio in questi anni di ufficio di scollocamento, ovvero, come fare per vivere senza dipendere da un lavoro salariato. La prima cosa è essere convinti che non si ha bisogno di tutto quello che ci propone il sistema, che posso vivere con meno, che posso coabitare, che posso condividere, anche con famiglia a carico. L’essere scollocati, ovvero senza un lavoro fisso dipendente, non può’, non deve più far nascere riprovazione sociale, semmai si dovrebbe fare sistema attorno ai lavori utili a tutti noi abbandonando un bel po’ l’economia del fatuo, del superfluo… ma non quella del bello. Attenzione.
Il bello, l’arte, gli antichi scritti autografi, riescono a tenerci assieme anche in questi giorni tristi del terremoto: noi restiamo col fiato sospeso per le persone scomparse, per il destino dei vivi e per i simboli della nostra storia di comunità… leggo da Il Villaggio di Gennaro: «che lo faccio a fare un progetto se poi non c’è chi lo realizza? A regola d’arte, sia chiaro. Che vuol dire ‘a regola d’arte’? Chiedilo a un pittore, a un fabbro, a un falegname. Chiedilo a un orafo, a un liutaio, a un intarsiatore, a una ricamatrice. Tutti sanno che cosa vuol dire ‘a regola d’arte, ma non te lo sanno spiegare. I bravi artigiani creano, costruiscono ma non stanno lì a spiegarti le cose. Tu osserva quello che fanno e sta lì la risposta. Se proprio la vuoi sapere. Quando le cose funzionano e sono belle e sono durevoli allora vuol dire che sono fatte bene. Ecco che cosa vuol dire ‘a regola d’arte’.»
Le scene de Il Villaggio di Gennaro sono scene di condivisione di preoccupazione per l’altro, chi ha poco, ma ha quanto basta (la zuppa, una brandina con le coperte, anche una televisione per le notizie, per quanto in bianco e nero) si preoccupa per l’altro: avrà sonno, avrà freddo…. (nella postfazione Edoardo Baietti nota che qui non ci sono ammennicoli tecnologici e oggi il vero povero, almeno nei paesi industrializzati del primo mondo come l’Italia, non è più considerato quello che non ha pane o una giacca, questi si valutano averi scontati, ma attrezzature tecnologiche). Leggo dal ‘Paniere Istat 2016 per la misura della inflazione’: «nel 2016 entrano nel paniere le bevande vegetali, il pantalone corto uomo, i leggings bambina, la lampadina led, i panni cattura polvere, i servizi integrati di telecomunicazione (tv, internet e voce), l’alloggio universitario, il tatuaggio. La rilevazione dei prezzi delle automobili usate va a integrare quella dei prezzi delle automobili nuove mentre il trapano elettrico arricchisce la gamma di prodotti nel segmento di consumo utensili e attrezzature a motore per la casa e il giardino. Esce dal paniere il prodotto cuccette e vagoni letto.»
Leggere ‘sto paniere è più veloce che leggere libri di storia e sociologia, per certi versi è meno avvincente ma molto pratico…. Ci ricorda anche che la povertà è molto diversa dalla miseria ovvero dalla poca istruzione, dalla scarsa curiosità di tutto, dal vivere ai margini non per scelta ‘organizzata’ ma per incapacità a partecipare.
Dalla condivisione si arriva fino alla figura un po’ atipica del prete, attorno al tavolo della discussione di Gennaro: prete che dovrebbe rappresentare unione, invece qua rappresenta, in parte, una casta ricca che non sa bene neanche cosa possiede. Forse potrebbe mettere a disposizione l’edifico per il sogno di Gennaro ma non ci ha mai nemmeno pensato lontanamente ad utilizzarlo. Se non l’avete visto vi segnalo a tal proposito il film Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio che racconta molto bene alcuni rapporti di conservazione dello status quo tra poteri forti… anche con Bellocchio sembra tutto molto semplice ma non smetterete di pensare al film per settimane, ve lo garantisco, e c’è un ottimo Roberto Herlitzka…. esco ora dalla lettura del bellissimo L’uomo del futuro – sulle strade di don Lorenzo Milani di Eraldo Affinati, nel quale la teoria e la pratica del priore di Barbiana ci raccontano, in parte, alcune cose che ci racconta Il Villaggio di Gennaro, la sua bottega dei miracoli: dare uno spazio alla creatività, alla capacità di fare, promuovere formazione ed autoformazione infonde fiducia in se stessi e così nel futuro. Un futuro che in parte torna nelle proprie mani.
Se questa è una società che crede di non avere più bisogno (in realtà di non meritare più) un lavoro lungo e accurato come quello del restauratore, del ceramista, del mosaicista, o fatto davvero a regola d’arte (come quello del muratore, dell’elettricista?) … (a proposito, quanti di voi hanno o hanno avuto problemi con lavori fatti in casa, pagati un occhio della testa e fatti letteralmente con i piedi?) Se questa è una società che crede questo, dicevo, questo avrà.
In parte noi contemporanei potremmo avere ragione nel leggere noi stessi, nel considerarci meno eterni di come si consideravano i romani antichi o gli egizi, che si leggevano immortali e costruivano, infatti, acquedotti e dimore che ancora esistono. In parte è anche vero che noi umani siamo capaci di costruire solo monumenti (che poi possiamo ritenere futili o no). Pensate alla rete: pensate ai milioni di pagine della rete, ai milioni e milardi di pagine social e contatti: questo è un monumento dell’età contemporanea che ha già prodotto qualche bella realtà di solidarietà e incontro fra centinaia di migliaia di persone; e inoltre conta già i suoi morti, i suoi feriti, i suoi martiri, nemmeno la rete è lavoro sprecato anche se non costruisce oggetti che si possono toccare.
Ogni epoca, con tutta probabilità, innalza i propri monumenti: oggi costruiamo pagine web e le strade e i palazzi, le scuole, cadono a pezzi, (o li costruiamo male e anche se nuovi non resistono alle sollecitazioni della natura), oppure abbiamo artigiani che lavorano come se le cose dovessero durare una settimana tanto tutti quanti abbiamo ben altro da fare, da vedere: viaggiamo di più, siamo connessi con persone a centinaia o migliaia di chilometri di distanza, vediamo immagini tv, streaming, scaricate da supporti trasportabili, non abbiamo tempo per curarci della forma e alla fine non l’abbiamo neppure per curarci della sostanza.
La lentezza di Gennaro a-tecnologico mosaicista (ma non a-tecnico) resta nella mente perché ci chiama al suo essere, al suo ragionare: mentre andiamo, infatti, ci resta il dubbio se stiamo andando bene… e qui lascio la riflessione ad ognuno…
Anche se l’utopia di Gennaro resterà tale, noi possiamo viverla grazie alla capacità di raccontarla di Maria Lanciotti. Possiamo ricordare che esiste il mondo del lavoro fatto ad arte, ben fatto, quello maggiormente lento e che perciò sapeva includere anche chi non era così pronto e svelto, pensiamo solo alle persone svantaggiate per le quali una volta c’era la famiglia allargata e la bottega, il ritrovo, ed oggi si è costretti a pensare progetti ‘a parte’ che difficilmente includono perché già nascono ‘a parte’.
Credo che questo pezzo di vita evocato da Il Villaggio di Gennaro non sia una lode ai tempi andati: il lavoro, ce lo raccontava anche Primo Levi nel suo La chiave a stella è soddisfazione per il ben fatto, guadagno, socialità, racconto di vicissitudini: leggere per credere i racconti Acciughe I e Acciughe II, dalla sua esperienza di chimico, sempre contenuti ne La chiave a stella uno dei libri più ironici e ottimisti di Primo Levi.
La socialità nel racconto di Maria torna alla ribalta: conta la conversazione, il discorrere, la sfumatura di pensiero: conversare con gli altri circoscrive meglio chi siamo.
Quando Maria ha messo insieme gli elementi di questo progetto (la storia di Gennaro, quella dell’edifico del Sacro Cuore di Ciampino) avrà pensato anche ai ragazzi che vorrebbero farsi un futuro.
A volte si incolpano i giovani di non fare abbastanza per il loro lavoro, per il loro futuro, che poi è oggi, ogni giorno: oggi, più che mai essere giovani, capire da che parte poter andare, resta difficile più di qualche volta con le poche indicazioni che si riescono a cogliere: c’è, è vero, tanta pseudocomunicazione. Basta passare qualche ora a guardare i comunicati stampa di una redazione giornalistica: tanti lanci di notizie più che approfondimenti, tanta fuffa e molta poca sostanza, complici anche i social.
Tutto appare in continuo movimento anche se poi non è proprio così, anzi è tutto maledettamente fermo (io non ho dimenticato le discussioni devastanti dei miei vent’anni fra coetanei o con gli adulti su quello che avremmo dovuto fare, sul futuro, sull’incertezza, devastanti perché spesso la poca fermezza dell’età si ‘incontra’ con il poco essere presi sul serio perché ‘tanto si è giovani’, ci pensano gli adulti che poi a causa della crisi economica o dei disastri naturali non possono pensarci più….).
Scrive il poeta britannico Philip Larkin in alcuni versi nati nel ‘900 sui giovani che lasciano il loro paese per andare a cercare lavoro. Tratti da Finestre alte, versi che pure letti in questo secolo evocano incertezza, durezza dell’esistere:
Questo è esser giovani,
mettersi addosso il secolo allarmato
come un vestito nuovo da grande magazzino,
le enormi decisioni impresse da piedi
che s’inventano il cammino,
le finestre irregolari che evocano una strada.
Serena Grizi
l’epifania di cui si parla nello scritto non è quella Epifania, perciò va minuscola, ma forse il testo vi è arrivato già così. Grazie!