Gli antichi mestieri: bottai, facocchi e tornitori


Roma Artigiana è un volume pubblicato da Stefano Nespoli e Paola Staccioli nel 1996 che ripercorre la storia dell’artigianato a Roma. Un modo per avvicinarsi, attraverso la storia delle arti e dei mestieri, alle vicende economiche, politiche, religiose e alla vita quotidiana della città. Di seguito pubblichiamo un estratto sugli antichi mestieri dei bottai, facocchi e tornitori.

Costruire botti è una vera e propria arte che consente, assicurano gli intenditori, di dare al vino il giusto sapo­re. Il mestiere è però tra quelli che lo sviluppo tecnologico ha definitivamente condannato alla scomparsa. Ormai i recipienti in legno, tra l’altro sempre più spesso prodotti industrialmente, sono utilizzati soltanto per vini e liquori pregiati. Per gli altri vengono invece impiegati contenitori di materiali differenti, vetroresina in particolare, più economici e durevoli ma anche più leggeri ed agevoli da pulire.

Padroni delle tecniche e dei segreti per curvare il legno, i pochi bottai rimasti costruiscono manualmente, solo con l’ausilio di alcuni antichi strumenti sconosciuti al profano (anche se macchine per la fabbricazione di botti esistono da più di un secolo e mezzo!), recipienti di varie dimensioni e con differenti funzioni, ottenuti però sempre tramite l’unione di assi chiamate doghe, strette insieme con cerchi di ferro o di legno: oltre alle classiche botti realizzano barili, tini, mastelli, adattando anche queste forme, negli ultimi anni, alla creazione di mobili rustici. Una curiosità: in passato i bottai fabbricavano pure “elettrodomestici”, come testimonia la “lavatrice” conservata nel Museo dell’Artigianato Scomparso, una botticella in legno azionata a mano tramite una manovella.

Padroni delle tecniche e dei segreti per curvare il legno, i pochi bottai rimasti costruiscono manualmente recipienti di varie dimensioni e con differenti funzioni, ottenuti però sempre tramite l’unione di assi chiamate doghe, strette insieme con cerchi di ferro o di legno

Di bottai a Roma non se ne trovano più. Hanno ormai chiuso, pochi anni fa, le ultime botteghe di Testaccio, situate ai piedi della collina, accumulo artificiale di frammenti di vasi e rottami vari, lungo le cui pendici c’erano un tempo numerose grotte, celebri catacombe di un vino divenuto famoso perché “di tanta gagliardia/ che fa cantar più assai di Anacreonte”, il poeta greco che celebrò il vino nei suoi versi.

Nella provincia, in particolare ai Castelli Romani, ci sono gli ultimi superstiti di un mestiere antichissimo – menzionato già da Plinio il Vecchio -decisi a non interrompere una tradizione che spesso si tramanda da molte generazioni. Resistono ad esempio ad Albano Laziale, pur tra mille difficoltà, i fratelli Sannibale, nell’antica e un po’ buia bottega aperta dai loro antenati nell’ormai lontano 1860. Ma si contano veramente sulle dita di una mano i continuatori di questo mestiere faticoso e particolarmente delicato in tutte le fasi della lavorazione, a partire dalla scelta del legname per la fabbricazione dei recipienti, che deve avere caratteristiche di compattezza ed elasticità. La quercia è ad esempio particolarmente adatta ma nel Lazio, per la sua diffusione, viene in genere usato il castagno. Proprio accanto all’officina di Albano, all’interno del cortile del palazzo, sopravvive una delle poche caratteristiche fraschette dei Castelli Romani, “ambiente naturale” per i lavori artigianali del bottaio.

Vere e proprie “mosche bianche” sono anche, al giorno d’oggi, i facocchi: numerosi nella Roma dei secoli passati, fabbricavano le parti in legno di carri e carretti, mentre quelle in ferro erano realizzate dal ferracocchio. Ora, al più, aggiustano le poche carrozzelle rimaste.

Il mestiere ci viene mirabilmente descritto, in versi, da Zefferino Colletti, che solo in ultimo ci sembra scadere in una conclusione un po’ troppo scontata: “Da li più mejo ciocchi staggionati, / a forza d’accettòla e de scarpello, / sorteno razzi, quarti e un botticello, / che te pareno pezzi aricamati. / L’accrocca tutti assieme e, sur più bello, / pe falli arimané così incastrati, / je inarca addosso er cerchio come anello, / levato da li tizzi aroventati. / E mentre che lo sfredda, er bon facocchio / je leva li difetti, uno per uno, / menànno giù mazzate a còrpo d’occhio. / Così nasce la ròta che poi, in fonno, / benanche nun ce penza mai nisuno, / è stata lei che ha fatto cambià er monno”.

Pochissimi sono anche i tornitori ancora operanti a Roma, che si trovano in alcuni rioni storici quali Esquilino, Borgo, Trastevere. Consigliamo, a chi non conosce il mestiere, di gettare uno sguardo nelle loro botteghe: si rimane infatti a bocca aperta nel constatare con quale sorprendente velocità questi artigiani, con l’ausilio del tornio e di un attrezzo da taglio, danno forma al legno ricostruendo zampe di tavoli e sedie, ma anche creando vasi, scatole ed altri oggetti.

Estratto ripreso da PaolaStaccioli.it 

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