Thomas Quintavalle è un fotografo che ha girato tutta l’Italia per dare vita ad un progetto unico: fotografare le aziende familiari artigiane italiane ultracentenarie. Il suo progetto si chiama Le Mani della Tradizione. Qui trovate una parte dell’intervista realizzata dalla rivista Frizzi Frizzi
Ci sono storie che ti colpiscono, incuriosiscono, stupiscono, in cui ti immedesimi e riconosci e che per questo vorresti raccontare bene, così bene che ti sale una certa ansia da prestazione, che rischia di bloccarti e non fartele raccontare mai.
Thomas Quintavalle è il protagonista di una di queste storie. Le nostre strade si sono incontrate per la prima volta nel 2013, quando Ethel lo intervistò per la nostra vecchia rubrica 7am, ma io non me ne ricordai quando l’estate scorsa ci scrisse per raccontarci il suo progetto. Una progetto fotografico che aveva come protagoniste una mia grande passione degli ultimi anni: le aziende familiari ultra-centenarie italiane.
Thomas è un fotografo, ha 42 anni, una laurea in giurisprudenza conseguita nel 2005 a Ferrara. Nel 1995, ha avuto un brutto incidente stradale che lo ha costretto sulla sedia a rotelle e che, scrive lui stesso in una delle tante email che ci siamo scambiati, «senza dubbio rappresenta uno spartiacque nella mia vita. Tutti gli eventi traumatici finiscono per farci parlare di un prima e di un dopo.. Il prima è senza dubbio il ricordo di una vita normale come quella di tante altre persone, il dopo è invece la storia di chi ha ricominciato da zero o quasi ed è riuscito a rimettersi in gioco, ottenendo successi ed insuccessi, ma con una percezione diversa, credo più consapevole della parola vita».
Oggi finalmente dopo quasi un anno è arrivato il giorno per raccontarvi di Thomas e del suo progetto Le mani della tradizione attraverso una serie di domande.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Calzaturificio Voltan, Stra (Ve), 1898
(© Thomas Quintavalle)
Da quando ti occupi di fotografia?
Io faccio il fotografo dal 2012, inizialmente per passione personale. Fotografavo sopratutto cibo, perché è una cosa molto complessa e mi stimolava la sfida. È stato molto istruttivo. Poi mi sono trasferito a Berlino e qui ho iniziato a gironzolare per la città ed immortalare scene di quotidianità.
Ho avuto una breve fase architettonica, ma più che gli edifici a colpirmi sono state le persone, perché Berlino è una città che “è stata scelta”: non si viene a Berlino per caso, questa città non conosce l’immigrazione per necessità, di chi è in cerca di lavoro, come altre città industriali della Germania.
A Berlino non ci sono industrie, anzi qui il lavoro scarseggia, tanta gente arriva con pretese artistiche e nella maggioranza dei casi finisce per lavorare nella gastronomia, ma la gente che si è trasferita qui, soprattutto in alcuni quartieri, arriva da tutto il mondo ed è una fonte pazzesca d’ispirazione.Nelle passeggiate che facevo con la mia sedia a rotelle venivano fuori delle bellissime storie, dei flash di vita quotidiana.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Ubaldo Grazia Maioliche, Deruta (Pg), 1500
(© Thomas Quintavalle)
Prima il cibo e le “storie berlinesi”, quindi è nato il progetto Le mani della tradizione, mi racconti come?
Ho iniziato a fare fotografie molto tardi, perciò avevo la necessità di concretizzare velocemente, per arrivare nel più breve tempo possibile a raggiungere degli obiettivi; non avevo più venti anni, con tutto il tempo per fare, imparare, sbagliare. Non mi ero mai troppo interessato di fotografia di architettura, né mi ero occupato ad alcun titolo delle imprese storiche, fatta eccezione per un articolo che lessi, credo nel 2008, che parlava del primato delle imprese storiche italiane e che mi aveva suscitato una certa curiosità. Volevo realizzare, da fotografo, un progetto interessante, su una realtà che io non conoscevo affatto, volevo che venissero fuori delle belle foto ma soprattutto volevo che venisse fuori il racconto di qualcosa di concreto, volevo che venissero fuori la storia, le persone.
Di che anno parliamo?
Le mani della tradizione è nato nel 2013. Grazie a questo progetto in poco tempo sono arrivati riconoscimenti, sono nate collaborazioni molto belle, anche con delle Università, partendo dalla fotografia. A dire il vero io ad un certo punto speravo di riuscire a creare un network tra le imprese storiche, tra le realtà che avevo avuto modo di raccontare attraverso il mio obiettivo, ma non ci sono riuscito perché da noi in Italia è difficile riuscire a mettere insieme, in collaborazione, le imprese.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Piacenza Cashmere, Pollone (Bi), 1733
(© Thomas Quintavalle)
Esiste il Registro italiano delle aziende storiche di Union Camere ma in pratica credo serva a poco niente.
Sì. Gli unici che sono riusciti a fare network sono delle aziende, prevalentemente toscane (anche perché forse è la regione che ha più imprese storiche), che fanno capo ad un’associazione che si chiama UISI.
Torniamo al progetto, curiosità a parte, come ha preso forma l’idea di fotografare proprio le imprese storiche?
L’idea di raccontare le imprese storiche italiane si è paradossalmente sviluppata in Germania, perché la Germania è un paese in cui si valorizza qualunque cosa si faccia. I tedeschi non la enfatizzano, come altri, ma la raccontano, la propongo per farla vedere a tutto il mondo. L’Italia invece ha il grande difetto di non raccontare. Al di là dei soliti nomi noti, molto resta celato.
Così io ho pensato di raccontare le aziende per immagini, in un viaggio intorno al prodotto italiano che non riguarda per forza il cliente ma lo “spettatore comune”, che nonostante non potrà sempre accedere attivamente a tutti questi prodotti ne diventa in qualche modo soggetto attivo.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Oreficeria Torrini, Firenze, 1369
(© Thomas Quintavalle)
Molti dei soggetti delle tue foto sono artigiani al lavoro.
Con le mie fotografie ho cercato di catturare due universi apparentemente in antitesi, quello “aristocratico” del prodotto finale e quello “democratico” che dà spazio agli artigiani, agli operai e che aiuta, da un lato gli italiani a riconoscersi nella qualità, e dall’altro rappresenta quel plusvalore che ci distingue in tutto il mondo.
Raccontando i lavoratori e i luoghi, ero convinto di riuscire a coinvolgere maggiormente le persone: ogni italiano ha avuto un nonno, un papà, uno zio artigiano o operaio e quindi sarebbe stato più semplice identificarsi.
Ne è venuto fuori un lavoro bello dal punto di vista del racconto, infatti i tanti complimenti e riconoscimenti che sono arrivati, non riguardano solo la fotografia, ma sono per aver provocato emozioni, ricordi che suscitano il senso di appartenenza. Perché le persone che lavorano in queste aziende, che a volte sono piccolissime, altre molto grandi, hanno l’orgoglio di far parte di queste realtà economiche.
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