Da Tor Bella Monaca alla Biennale: la disabilità diventa arte


Nella periferia romana spicca il Laboratorio Museo d’arte della comunità Sant’Egidio: gli allievi (una settantina di disabili) seguono i corsi degli artisti e riversano sulle tele passione e anima. E c’è chi arriva alla Biennale di Venezia e al Maxxi

Fuori, c’è la panchina della vedetta (un pischello arcigno agli ordini degli spacciatori). Attorno, due chilometri di grigi casermoni marchiati come galeotti (R8, R11, R5…); e poi voragini stradali, lampioni assassinati, murales votivi per padrini morti nelle guerre tra clan. «Occhio a dove metti i piedi», dice Maria, che ci guida. Perché il cortile, dentro, è un altro pozzo nero: qui a “Torbella”, periferia romana malfamata come una fiction di successo, pure le lampadine sono un privilegio.

Una chiazza di Luce

Una chiazza di luce Ma poi, in fondo al cortile, c’è questa chiazza di luce forte, le vetrate del laboratorio. E, varcata la porta, i colori dei quadri alle pareti inondano le stanze. Gialli girasole, rossi vermigli, verdi primavera, tinte vitali.Il nero è poco amato, richiama reclusioni, cancelli sbarrati, coercizione. E qui molti, bollati da «picchiatelli» sin da bambini, ci sono passati. Però Maurizio, riemerso dal manicomio, l’ha preso di petto, il suo nero. Ci ha fatto una tela color della pece e l’ha chiamata «Io volevo usci’». Prima che per uscire ci vuole coraggio a entrare, qui, in via dell’Archeologia 74, nel Laboratorio Museo di arte sperimentale messo in piedi dalla comunità di Sant’Egidio dieci anni fa e diventato nel tempo un motore capace di pompare le sue energie fino alla Biennale di Venezia e al Maxxi.

Luoghi comuni rovesciati

Ci vuole coraggio, sì, perché questa mattonella di luce piantata nel buio cortile del blocco R5 rovescia almeno due pigri luoghi comuni. Il primo, verso l’esterno: che il fuori di qui, la Tor Bella Monaca dei ragazzi di morte, citata persino dal ministro Minniti come esempio «noir», sia irredimibile. Il secondo, verso l’interno: che gli allievi di questa bottega temeraria, coi loro pennelli e pastelli, e l’aria stralunata da adolescenti di mezza età, siano da guardare con compassione o imbarazzo; o, al più, come atout in graduatoria (un disabile a carico aiuta ad ottenere un alloggio popolare) ma mai per ciò che sono davvero: passione, amore, dolore, anime riversate sulle tele.

I volontari di Sant’Egidio ci hanno provato e ci provano, aprendo due pomeriggi la settimana a una settantina di disabili questi ex lavatoi ottenuti dal Comune; sostenuti da artisti e professori ma, soprattutto, da una tenacia che cambia i destini. Ad Annamaria Cordone, nell’istituto «speciale» dove l’avevano parcheggiata, ripetevano «ma che vuoi capire tu?». Lei non solo capisce i drammi di chi è più debole ma li mette su tela. Così il suo «Pollicino a Gulu», un labirinto verde come le foreste dell’Uganda, è ispirato ai bambini soldato.

Annamaria Colapietro, «l’altra Annamaria», ha passato i sessant’anni e ne ha trascorsi venti nel vecchio manicomio di Santa Maria della Pietà: «Dicevano che ero matta/ mi hanno messo nella camera buia/ mi facevano le punture/ mi menavano a sette anni». Ora espone «Flussi e memoria», ti trascina orgogliosa verso le tele. Oggi con la maestra Anna ci sarebbe «lezione di Van Gogh» ma si crea a tema libero, sicché Piero può inventare la sua «Merilin Morrò» come Andy Warhol. S’è fatto vent’anni al Don Guanella, adesso sta in una casa famiglia qui vicino, respira. Antonio e Claudia, «i fidanzatini», s’avventurano sulle linee bislunghe di Modigliani ma lui s’avventura soprattutto a infilarle un anello al dito: ne ha cinque o sei, tenera chincaglieria, in un sacchetto di plastica sotto il banco e cerca la misura giusta. Lei ci ammonisce: «Questa è ‘na storia seria».

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