Il significato antropologico della festa di Carnevale


Un excursus storico e antropologico: la festa nella tradizione popolare

La festa è un microcosmo variegato con un certo grado di complessità per le varianti culturali, antropologiche e tradizionali, in essa comprese. Risulta un momento della vita sociale di durata variabile, che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane, opponendovisi come periodo di particolare effervescenza. La festa si caratterizza, rispetto al resto del tempo, per l’interruzione del lavoro produttivo, manifestando l’opposizione al sistema costituito e vigente attraverso i momenti dell’eccesso, della trasgressione e infrazione di norme e divieti precostituiti, dell’inversione, dello spreco, della distruzione.

L’assolutismo monarchico, il clero, il razionalismo utilitarista e razionalista si sono battuti insieme contro le feste, considerate attività e forme di associazione intrinsecamente sovversive, eversive, rivoluzionarie, portatrici di cambiamento, perché non motivate da esplicito ed utilitaristico rendiconto, ma rappresentanti un contesto ludico  e ricreativo, ambito di rigenerazione per il popolo in un tempo libero da obblighi a fini materiali.

Ma già Rousseau aveva denunciato il carattere contradditorio di una concezione che pretende di ridurre la coesione, l’associazione e il legame sociale, collettivo alla pura razionalità utilitaristica, perché impedendo le feste al popolo, si elimina la voglia di vivere, l’istinto creativo e vitale e  perciò la motivazione stessa del lavoro. Soprattutto si distruggono le basi e i fondamenti della società, dal momento che gli individui sono respinti nell’isolamento, nella solitudine, eliminando le occasioni che promuovono socievolezza in ambiti di amicalità e interscambio affettivo.

“L’istituto festivo è la riaffermazione e al contempo negazione dell’ordine sociale esistente, in un mondo che riproduce il tempo della vita quotidiana per affermarlo, negarlo e, infine, migliorarlo; è un hortus conclusus, uno spazio/tempo, luogo dell’anima, un ambiente magico dove si partecipa ad un lavoro di preparazione svolto collettivamente. Come sostiene il Bachtin, il momento celebrativo del rito ha rapporto con gli scopi superiori dell’esistenza umana ( la rinascita, il cambiamento, il rinnovamento, la rigenerazione).

Il Carnevale, la festa popolare per antonomasia

Il carnevale, festa popolare per antonomasia, consiste in un regno utopico dove il popolo penetra in un universo simbolico di libertà, uguaglianza e abbondanza, contrapposto ai rituali ufficiali della chiesa e dello stato feudale che non distraggono dall’ordinamento esistente, ma lo suffragano, consacrano e rafforzano nelle sue gerarchie, norme e tabù religiosi.

Il carnevale, rito del rinnovamento racchiude in sé il principio comico, l’espressione ridanciana, lo scherzo, il riso del popolo (come nell’opera di Rabelais) nella totale liberazione dalla serietà gotica, per aprirsi a una nuova concezione libera e lucida tipicamente rinascimentale.

Il carnevale come ogni festa popolare presenta diversi linguaggi espressivo-comunicativi schietti e genuini, appunto comico-carnevaleschi, compresi nel realismo grottesco, un sistema di immagini tipiche della cultura comica popolare, in cui l’elemento materiale e corporeo, positivo, universale, proprio dell’insieme del popolo si oppone al totale distacco dalle radici materiali del mondo, i cui simboli sono la fertilità, la rinascita, la crescita in abbondanza.

Il “basso materiale e corporeo” è la terra, il grembo materno, la placenta primigenia, le nostre origini a cui tutti dobbiamo tornare e far riferimento per poi svincolarcene assumendo coscienza del sé, recuperando la memoria personale, la propria storia di vissuti, suffragando così la nostra indipendenza e adultità: questo è il compimento del festivo. Ogni esperienza è un parto che ci fa assumere responsabilità, trasformandoci da figli /allievi a tutori /generanti”.

L’interpretazione di Freud

Secondo Freud, in Totem e Tabù (1913), la “festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto”, essenzialmente una trasgressione legittimata delle regole, delle norme, dei tabù religiosi, mettendo in evidenza però, il carattere codificato, controllato e, in definitiva, repressivo dell’ apparente libertà festiva e quindi la funzionalità alla conservazione dell’equilibrio sociale di quegli “sfoghi” ed “eccessi” legittimati che Marcuse identificherà come “desublimazione repressiva”.

Tale aspetto repressivo risulta, probabilmente, più accentuato nel contesto attuale che in passato, in rapporto alla progressiva confusione tra festa e vacanza i cui sfoghi ed eccessi sono divenuti sempre più funzionali alla produttività, al consumismo esasperato e all’alienazione dell’uomo in identificazioni sostitutive, che apparentemente lo allontanano dai suoi reali problemi.

A cura di Laura Tussi, continua a leggere su Il Dialogo.org

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