Abitare e costruire: il punto di vista dell’antropologia


Molte scuole di antropologia hanno sottolineato come la cultura dell’abitare plasmi la nostra visione del mondo. Nell’esperienza dell’abitare si incontra oggi non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture

Se ciò è vero, non solo il mondo viene percepito attraverso l’esperienza  abitativa, ma questo viene addirittura strutturato e dotato di significato  secondo la propria peculiare visione della “domesticità”. Consapevole di ciò, l’antropologia contemporanea non si limita a studiare l’abitare e il costruire, ma attraverso la formazione di equipe interdisciplinari, sta partecipando in maniera determinante al sorgere di esperienze urbane che contribuiscono ad attivare una collaborazione partecipativa tra abitanti e tecnici nella gestione urbana e nella costruzione o ricostruzione del territorio e della città.

Anche se, dal punto di vista politico, queste forme alternative, in genere, non vengano stimolate e in molti casi sono addirittura represse. Basti pensare all’esecuzione continua di sgomberi e sfratti di luoghi occupati e/o auto-gestiti da movimenti sociali, gruppi antagonisti o di homeless, così come al diffuso buldozzing state of mind, come lo definì a suo tempo lo storico e filosofo delle tecnologie, l’americano Lewis Mumford (1895-1990) che caratterizza l’azione istituzionale nei confronti di quartieri spontanei o considerati clandestini.

In ogni modo oggi c’è una nuova prospettiva dell’abitare – che nel ‘900 parte da Heidegger e arriva a Tim Ingold, un antropologo inglese che insegna a Aberdeen (in italiano è stato tradotto, Ecologia della cultura, Roma, 2004) – la quale considera i processi di costruzione come subordinati alla facoltà umana di produrre e vivere la spazialità ( Henri Lefebvre) e propone di pensare l’autocostruzione come luogo auto-e-antropoietico di governance del territorio.

Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza che le città non sono semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma sono il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide. Si può dunque affermare che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città luoghi “socializzati” in cui vivere.

Abitare, nel suo significato più ampio, non si limita più all’oggetto-casa, né si esaurisce nell’analisi della “vita corrente” che l’attraversa, ma è un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone. A parte ciò, appartiene alle abitudini giovanili abitare un insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e per chi è inurbato anche una pluralità di “spazi di vita” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il tram, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da una comunità di pratiche sportive, culturali).

In questo senso possiamo dire che oggi nell’esperienza dell’abitare si incontra non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture. Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza che le città non sono semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma sono il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide. Si può dunque affermare che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città luoghi “socializzati” in cui vivere.

Per questo – come insegna la storia –  lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle forme urbane. Basti pensare al fatto che lo straniero che viene in pace introduce cibi, idiomi, lingue, porta suoni, colori, forme, significati e notizie.

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