Luca Magnani: “Vi svelo Anna, la mamma che era anche una diva”


Nella casa-monumento di Luca, figlio di Anna Magnan,i tra foto, lettere, premi. “La vedevo solo a cena, e le nascondevo le pagelle”

Luca Magnani non ama il cinema. Non ama le interviste. Non ama quest’Italia che ha dimenticato sua madre Anna, una delle più grandi attrici italiane. Si farebbe prima a dire chi ama visto che ha speso una vita intera a smarcarsi dal ruolo di «figlio di» con l’unico risultato di rimanerne ancora più soggiogato.

Ha provato a restare lontano dai palcoscenici e da tutto quello che era il mondo di sua mamma. Nel suo curriculum ci sono una laurea in architettura a pieni voti e circa mezzo secolo di lavoro come libero professionista. Ma non è servito. «Come architetto non ho fatto nulla di eccezionale e a quasi 75 anni ancora la gente mi chiama il figlio della Magnani. Se a questo punto della propria vita ancora non si ha una propria identità…», scuote la testa. Ma intanto sorride: «Non è una lamentela, mi fa piacere».

È vero. Mai si è visto un prigioniero più fiero di esserlo. Dietro la scrivania del suo studio è appesa una splendida foto in bianco e nero della madre e tutt’intorno si dipana una casa che sembra un monumento eretto alla memoria di quella che per gli altri è stata l’interprete di alcuni dei ruoli più memorabili della storia del cinema italiano, ma che per lui è stata innanzitutto la mamma.

la figura del padre non ci è mai mancata. Nè a me né a lei. Anche se è stato difficile: si è creata da sola, non aveva un regista o un produttore accanto, non aveva via di scampo, non poteva prepararmi la pappa o mettermi a letto la sera

Quadri, foto, lettere e premi occupano le pareti dell’intero appartamento, i ricordi diventano presente ad ogni parola facendo emergere il ritratto più intimo di Anna Magnani, la sua battaglia per essere attrice e madre, per lavorare e crescere un figlio in totale solitudine. «Ma la figura del padre non ci è mai mancata. Nè a me né a lei. Anche se è stato difficile: si è creata da sola, non aveva un regista o un produttore accanto, non aveva via di scampo, non poteva prepararmi la pappa o mettermi a letto la sera», racconta.

La loro è stata sempre una vita parallela: insieme ma separati. A quattro anni Luca fu colpito dalla poliomielite. Per garantirgli le cure e l’assistenza necessaria la madre lo mandò a vivere in Svizzera in una famiglia di italiani. «Tornavo a casa d’estate e qualche volta per Natale. Dopo la terza media tornai definitivamente ma andai a vivere in un appartamento accanto al suo, sullo stesso piano. Era giusto così, avevamo due vite diverse. Io andavo a scuola, mi alzavo la mattina presto. Lei lavorava anche fino alle due del mattino, la mattina si alzava molto tardi. Ci vedevamo la sera quando tornavo da scuola e da tutte le ripetizioni pomeridiane. Stavamo insieme a cena».

La cena era il momento in cui parlavano, si raccontavano, si scontravano. Gli anni peggiori? «I primi due dopo il rientro. Mi iscrissi al classico ma fu un disastro. Non avevo le basi di analisi logica e grammaticale, la mia pagella era sempre troppo simile a una schedina del Totocalcio: il volto più alto era 2». Come presentare una simile pagella? «Non la mostravo al mio ritorno a casa, la sera. Gliela lasciavo al mattino. Gliela portavano al suo risveglio rendendole il caffè amarissimo ma io a quel punto ero da tempo a scuola, evitavo il primo impatto. Al mio ritorno la rabbia era ormai sbollita, trovavo una sorta di conclave: mia madre riunita con la segretaria e spesso anche con la sceneggiatrice Suso Cecchi, grande amica di famiglia e donna molto pratica con tre figli, che aiutava a risolvere il problema cercando i professori per le ripetizioni».

Articolo di Flavia Amabile, continua a leggere su LaStampa

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