Il concetto di paesaggio dal punto di vista culturale e antropologico


Il paesaggio non è solo un contenitore o un luogo fisico, ma anche uno spazio in continua costruzione e sede di complesse relazioni interne ed esterne. Il paesaggio, da un punto di vista antropologico, è un luogo multiforme dove si definisce l’identità  culturale delle comunità sociali

Riflettere sul concetto di paesaggio in una prospettiva antropologica significa pensare al paesaggio in quanto territorio di una comunità, spazio del vissuto, momento di relazioni, e riconoscere che tale nozione, entrata nel linguaggio comune e apparentemente intellegibile, è in realtà ‹‹polisemica, ambigua, sfuggente, oggetto di negoziazioni e strategie che rinviano a orientamenti ideologici differenti ma anche a differenti intersezioni disciplinari e prospettiche.›› (Papa 2006: 185 )

L’antropologo norvegese Fredrik Barth

Ancora fino al 1969, anno di pubblicazione di Ethnich groups and boundaries di F. Barth, nel campo degli studi delle scienze sociali emergeva la visione del gruppo etnico come un’entità immutabile, dai confini precisi e stabiliti. Le analisi di Barth si basavano su una concezione delle comunità non come entità chiuse e circoscritte, ma come gruppi costantemente in relazione con altri, capaci di elaborare criteri di valutazione e interazione con i membri di altri gruppi autodefiniti diversamente. Il confine etnico diviene il mezzo attraverso il quale le comunità definiscono le loro relazioni reciproche, uno spazio dinamico dell’interrelazione e della comunicazione, una potenzialità di relazione che deriva dalla fluidità stessa dei confini culturali e linguistici (Fabietti 1999).

Guardare alle comunità come entità aperte, dinamiche, in continua relazione reciproca, pronte allo scambio, all’interazione e all’innovazione è un approccio fondamentale se si vuole ragionare sul concetto di paesaggio in chiave antropologica: il paesaggio antropizzato non come luogo fisico semplice contenitore, ma spazio in continua costruzione sede di complesse relazioni interne ed esterne. Tale prospettiva è resa più evidente nel termine corrispondente inglese landscape, che combina la parola land (terra) con un verbo di origine germanica, scapjan/shaffen (trasformare, modellare): quindi  “terre trasformate”. Il landscape – soggetto di grande interesse nell’antropologia sociale inglese – è luogo costruito, processo percettivo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio, modalità per ordinare l’esperienza, complesso processo culturale fra diversi poli delle relazioni sociali che prevede le aspettative, le potenzialità, le relazioni di una determinata comunità (Libertini 2000). L’antropologia contemporanea ha svolto un radicale lavoro critico su concetti come patria, identità e appartenenza, dimostrando come questi siano sempre delle finzioni culturali, inevitabilmente connesse a pratiche e strategie del potere. Ciò vale anche per il concetto di paesaggio e per la sua forte connessione con le dinamiche identitarie delle comunità, in una prospettiva che vede l’identità non più come una proprietà sostantiva, quasi naturale, di un gruppo sociale, ma come una sorta di “cantiere aperto” costantemente in costruzione (Dei 2004).

Guardare alle comunità come entità aperte, dinamiche, in continua relazione reciproca, pronte allo scambio, all’interazione e all’innovazione è un approccio fondamentale se si vuole ragionare sul concetto di paesaggio in chiave antropologica: il paesaggio antropizzato non come luogo fisico e semplice contenitore, ma spazio in continua costruzione e sede di complesse relazioni interne ed esterne.

Un simile approccio metodologico dovrà, inoltre, necessariamente allontanarsi da quelle riflessioni estetico-filosofiche basate prevalentemente su un aspetto percettivo generico e astratto, che si spingono a definire il paesaggio come una realtà esistente solo in quanto osservata dall’uomo con atteggiamento spirituale ed estetico. C.G. Carus definiva il paesaggio come un determinato stato d’animo; secondo J. Ritter il paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento. Per G. Simmel il paesaggio si forma in seguito ad un atto di delimitazione ai nostri occhi della natura, un atto spirituale, una disposizione dello spirito. Nella stessa definizione data dalla Convenzione europea sul paesaggio del 2000 si rintracciano ancora delle ambiguità nel riferimento astratto e generico dell’aspetto percettivo, favorendo ancora una volta rischi ‹‹di derive estetiche e psicologiche e di occultamento dei contesti multiformi e delle reti complesse che sottendono scelte, pratiche e rappresentazioni relative alla località da parte di coloro che la costruiscono e la abitano.›› (Papa 2006:186)

Franza Boas in abiti locali durante una ricerca etnografica sulla comunità degli Inuit

La metodologia autoriflessiva, l’apertura all’interdisciplinarietà, l’alterità come oggetto di  studio centrale, la tendenza a osservare un fenomeno da più punti di vista, fa dell’antropologia  un metodo di riflessione indispensabile a una realtà multiforme come quella del paesaggio.I  primi studi scientifici di natura etnografica, come ad esempio la ricerca di F. Boas presso le  comunità Inuit, evidenziavano già l’esistenza sul pianeta di diverse modalità di rapportarsi al  paesaggio, e quindi di come un discorso su questo non possa prescindere dall’osservazione di  “altre culture” e di come queste definiscono e organizzano il proprio spazio. Quando si riflette  sul paesaggio come fattore culturale non bisogna, dunque, mai rivolgersi a una popolazione  generica, ma è opportuno definire di volta in volta di quale contesto si sta parlando e quale sia  il relativo punto di vista. Le letture del paesaggio sono tanto numerose quanto lo sono gli  interpreti, gli individui e i gruppi, secondo le occasioni o le prospettive in cui si collocano;  spesso sono le stesse discipline osservanti a generare categorie “native” della località e la  capacità autoriflessiva delle scienze antropologiche risulta particolarmente efficace nell’analisi  di tali fenomeni.

F. Fileni nel suo saggio sulla comunicazione, elenca una serie di codici attraverso i quali è possibile comporre una mappa generale significativa di un determinato gruppo: codice linguistico, urbanistico, prossemico, della gestualità e delle tecniche corporali, delle alleanze matrimoniali, degli oggetti e del territorio; il codice definito dal territorio dovrebbe poter fornire le indicazioni inerenti alle interazioni sociali sia all’interno del sistema considerato sia all’esterno con le relazioni con gli altri gruppi. Il saggio si conclude con un’ analisi delle comunità arberesh della provincia di Cosenza, in cui viene individuata una particolare modalità di percezione degli spazi urbani: i paesi sono generalmente divisi in due metà, alto e basso, e all’interno di questa bipartizione si trova l’agglomerato relazionale più importante della comunità, la gjitonia, termine usato per indicare un gruppo di case i cui abitanti si sentono legati da un vincolo di vicinato, prolungamento della casa in strada, sua estensione sociale, spazio comune condiviso dove le donne lavorano assieme, vivono e ragionano assieme. ‹‹È nella gjitonia che viene trasmesso il patrimonio orale da una generazione all’altra, e sempre nella gjitonia che avvengono scambi di beni e di prestazioni secondo il valore d’uso. La gjitonia è il locus della cultura arberesh.›› (Fileni1999: 224).

I primi studi scientifici di natura etnografica, come ad esempio la ricerca di F. Boas presso le comunità Inuit, evidenziavano già l’esistenza sul pianeta di diverse modalità di rapportarsi al paesaggio, e quindi di come un discorso su questo non possa prescindere dall’osservazione di “altre culture”

Il landscape, dunque, come codice grazie al quale osservare una determinata comunità, momento di relazioni interne ed esterne, processo culturale sempre in divenire, costruzione di luogo e narrativa dei luoghi; il paesaggio osservato nella sua dimensione antropica, lo spazio concepito non come puro contenitore ma insieme complesso di fattori economici, politici, sociali e religiosi che in un determinato ambiente si relazionano. Il landscape non risulta costituito ‹‹…da spazi in bianco nei quali gli esseri umani impongono un ordine culturale. Al contrario, questi sono una sinergia di attività e percezioni. ›› (Libertini 2000:304).

E’ con questa prospettiva che F. Lai introduce il suo lavoro sull’Antropologia del paesaggio proponendo un percorso di lettura costruito intorno all’idea che il paesaggio costituisca il prodotto di un complesso processo culturale (Lai 2000). La sua è un‘interpretazione del territorio che tiene conto dell’insieme dei fattori simbolici, culturali, economici e politici, i quali elementi nella loro interazione contribuiscono a costituire il paesaggio come un complesso prodotto culturale. Secondo l’autore, alla base degli studi che concepiscono il paesaggio come prodotto culturale, c’è una componente comune che percorre trasversalmente tutte le varie discipline, vale a dire il concetto di “morfologia sociale”, cioè l’analisi delle modalità con cui gli individui si distribuiscono spazialmente, nato con  il dibattito degli Annales tra sociologi, storici e geografi.

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